mercoledì 13 marzo 2019

Il tempo, la lingua e la memoria - Il romanzo russo di Emmanuel Carrère






Nelle librerie torna per Adelphi Un romanzo russo (prima pubblicato da Einaudi con il titolo La vita come un romanzo russo, ndr), la casa editrice milanese colma così un'importante lacuna per quanto concerne la produzione dello scrittore e sceneggiatore transalpino.


Cos'è che ha reso Emmanuel Carrère un grande giornalista? Ma soprattutto: quali sono state le abilità da narratore che lo hanno fatto assurgere tra le voci letterarie più autorevoli del panorama europeo e non solo?
A ben vedere la sua vasta bibliografia è davvero difficile pescare un'opera – che sia una – che rappresenti veramente la cifra stilistica, ma se la scelta dovesse ricadere per uno sforzo mentale si punterebbe il dito su Un romanzo russo.

Perché? Tutto è iniziato da qui:



"Anche io, in un certo senso, sono lì. Ci sono stato per tutta la vita. Per descrivere la mia condizione ho sempre fatto ricorso a storie di questo tipo. Le ho raccontate a me stesso, da bambino, poi le ho raccontate agli altri. Le ho lette nei libri, poi ho cominciato a scrivere libri. E per molto tempo mi è piaciuto. Ero felice di quella sofferenza che apparteneva soltanto a me e faceva di me uno scrittore. Oggi non voglio più saperne."



Tornato dalla forte esperienza de L'avversario, che raccontava e toccava con mano la vita estrema di Jean-Claude Romand, viene a conoscenza della misteriosa storia di un soldato ungherese che durante la Seconda guerra mondiale fu fatto prigioniero e poi rinchiuso in un ospedale psichiatrico a ottocento chilometri da Mosca per oltre cinquant'anni e dimenticato dal resto del mondo.

Carrère decide di avventurarsi in questa spedizione con tutta la sua troupe per farne un ricco reportage, la vita di András Toma, o Toma András (o come dir si voglia) lo attenderà presto in un territorio spietato.
L'autore prova quindi a fuggire dalla destabilizzante esperienza avuta con Romand, ma a Kotel'nic, il posto in cui ebbe inizio la storia di András, si renderà subito conto che è un tentativo inutile perché lo metterà con le spalle al muro, Presto busseranno alla porta i fantasmi di un passato a lui sconosciuto.
András Toma non era un prigioniero politico, ma un prigioniero di guerra, cittadino di un paese ormai amico, e a guerra finita non c'era alcuna ragione di trattenerlo in Unione Sovietica.

Il punto è che non parlava russo, ma ungherese, e nessuno intorno a lui capiva l'ungherese. Inoltre – e questo non solo ha complicato ulteriormente le cose ma suggerisce che senza essere necessariamente pazzo non avesse una grande capacità di adattamento – lui non ha mai tentato di parlare russo, di racimolare qualche parola che gli avrebbe permesso di esprimersi e probabilmente di tornare a casa, e d'altra parte nessuno ha cercato di parlargli in una lingua abborracciata, o a gesti, insomma di escogitare un modo per comunicare con lui.

Proprio sulle tracce del prigioniero di guerra ungherese, Carrère si imbatterà in una storia ancora più grande di lui: addirittura legata alla vita di suo nonno materno Georges Zourabichvili; nel 1944 accusato di collaborazionismo e ucciso (probabilmente) per questo. Da qui il ponte che lo condurrà all'apprendimento della lingua russa, oggi un ricordo sfocato se non remoto.
Il racconto delle giornate passate con la sua tata Nana diventa così un tentativo di riprendere il filo delle sue origini, riappropriandosi dell'idioma parlato e coltivato per un po' durante la sua infanzia.

Carrère deciderà di fare ritorno a Kotel'nic per girare con l'aiuto della troupe il documentario Retour a Kotelinch: una scusa per affrontare a viso aperto i fantasmi di Toma e del suo passato.
Così come tempo dopo contatterà la redazione de Le Monde per lavorare a Facciamo un gioco, non un mero esercizio stilistico (che impegnava il lettore e Sophie a immaginare le nudità di una donna sotto i tessuti dei suoi vestiti), ma una lettera erotica indirizzata alla sua compagnia Sophie che presto avrebbe letto durante un viaggio in treno, ma purtroppo (per lui) non tarderà ad arrivare un feedback negativo.

Una prosa elegante che non ricorre mai a dei termini volgari, facendosi avanti piuttosto con l'essenzialità degli elementi raccontati e con l'ipnosi della scrittura stessa.

Sophie, la compagna dello scrittore che fa capolino nella prima scena del libro, in un sogno a sfondo erotico, sarà un altro dei temi trattati in questo testo ibrido tra autofiction, lettera d'amore, racconto metanarrativo e reportage storico. Il grande merito di Carrère narratore è proprio quello di non deragliare il discorso di Andás Toma in maniera disarticolata e confusionaria. Tutti gli argomenti convergono nell'unico punto interessato della storia e della vita di Carrère, intrecciata con quella della sua famiglia e della sua compagna; con la quale attraverserà il periodo che fa da anticamera all'inevitabile rottura. Sophie aspetta un bambino avuto con un amante.

Ma a tenere a bada un segreto inconfessabile è la madre dello scrittore stesso, la quale non vuole che vengano tirati fuori dai cassetti della memoria delle vicende dalle sfumature umbratili. Troppo tardi.



"Ma poi quando si fa il passaggio da ragazzo a uomo?
Possibile che non mi sono accorto che avevo finito il livello?
Sicuro mi sono scordato di salvare.
" 



Francia, Russia e il racconto – a sfondo storico - che fa tanto saga famigliare. Tutti elementi in comune che si sarebbero intrecciati più tardi anche in Dimentica il mio nome (Bao Publihisng, 2014) del fumettista romano Zerocalcare.

La nonna di Zero sta trascorrendo in ospedale gli ultimi istanti della sua vita, accanto a lei sono vicini suo nipote e la figlia (con le fattezze di Lady Cocca).
Con la dipartita e con i preparativi del funerale si disseppelliscono gli effetti personali in casa, ma anche tantissimi ricordi di famiglia. Zerocalcare si improvvisa detective assieme al distratto amico Secco: un'occasione di fare luce su un mistero più grande di loro.
Un elemento cromatico, sul finale della storia, farà riemergere un periodo oscuro alla famiglia di Mamie, come Zero era solito apostrofare sua nonna; ma dietro quel soprannome si celano conflitti irrisolti, la Seconda guerra mondiale e le lacrime che i suoi avi, tra una fuga e un'altra, non hanno potuto versare.



Il romanzo di Carrère prenderà una piega del tutto inaspettata quanto tragica nella seconda parte. Risollevandosi pià avanti con le riprese fatte nel villaggio di Kotel'nic, immerso in una dimensione arcaica e magica. Un momento che permette allo scrittore e ai suoi compagni di riprese a rifiatare tra un festival folkloristico e una mangiata davanti al fuoco. Vi spicca qui la figura della dolce interprete francese Anja, protagonista nelle tesissime battute finali del testo.
L'indagine va oltre la semplice inchiesta, proponendo piuttosto un viaggio metafisico nelle pieghe più profonde della storia. La lingua dello scrittore riempie di parole e immagini i territori ostili di Kotel'nic, dove prima c'era solo che silenzio.

Un ritratto autobiografico reso vivo e brillante già per le intenzioni.
L'autore si tuffa nelle acque più torbide per uscirne da assoluto vincitore come scriverà sul finale:


"[...] È strano, ma a volte, scrivendo questo libro, ho ritrovato quella sensazione indimenticabile: era come nuotare verso di te, come attraversare la piscina per raggiungerti".




Bao publishing, 2014

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